Di Tania Sabatino
Mi sono imbattuta in un film inaspettato “Pelle” (2017) del giovane regista spagnolo Eduardo Casanova. In una pellicola di un’ora e 11 minuti circa, che si pone al confine tra corto e lungometraggio, Casanova esplora con coraggio le strade ed i volti della mostruosità e dell’orrore umano, che si esplica in vari modi. Protagonisti sono i “malformati”, i reietti, abusati in ogni modo da una società che, se da una parte li respinge, dall’altra cerca di trarne il massimo profitto. Una società ben rappresentata dal bordello, che li nasconde al mondo e parimenti li offre al pubblico ludibrio e al “vizio” più turpe, affinché ognuno possa appagare i suoi istinti silentemente, ma anche libero dal senso di colpa e dalla condanna sociale.
L’orrore, infatti, come evidenzia la tenutaria del bordello, è insito nel genere umano e può essere agito su esseri nati per soffrire e che, alla fine, essendo la sofferenza connaturata al loro stesso essere, il loro destino ineluttabile, finiscono per non soffrire davvero, permettendo, dunque, di abusarne impunemente. Al di là della capigliatura, leggermente retrò, da “nonnina” alla moda, dedita ad un “servizio sociale” che permette a chiunque di liberare i propri istinti più perversi ed inaccettabili senza nuocere alla legittima famiglia, che anzi appare tutelata, anche colei che gestisce questo luogo denuncia il suo essere deforme interiormente, nella misura in cui non solo da quell’orrore trae costanti benefici, ma lo perpetra e lo alimenta addirittura di buon grado, tradendo il suo ricavarne, al di là delle apparenze, un piacere sadico.
Gli album, con le copertine rosa, che ella mostra ai clienti, sembrerebbero custodire scatti di momenti lieti, mentre invece sono cataloghi messi al servizio di un piacere perverso, dove trovano posto bambini, persone malformate o singole vittime sacrificali, la cui vita, a conti fatti, vale la manciata di banconote che gli habitué o gli occasionali sono disposti a pagare.
Il viscidume che la caratterizza, infatti, diventa visibile attraverso il sudore che ricopre costantemente il suo corpo, in una nudità scomposta all’insegna della violazione di qualsiasi forma di pudore e intimità, la stessa violazione che ella impone ai corpi ed alle anime di chi, in quel bordello, a ben vedere, è tenuto prigioniero.
Corpi violati, dunque. E’ così per una ragazza nata senza occhi, per un’adolescente con bocca ed ano invertiti, per una donna affetta da ipocondroplasia, per un giovane bello, ma prigioniero del disturbo dell’immagine corporea; per una coppia profondamente sfigurata. Gli altri, quelli che apparentemente hanno la pelle giusta, non atta a ricoprire o a segnare i confini ed il perimetro di una deformità, la deformazione rivela di essere interiore e molto più profonda e pericolosa. C’è un padre che abbandona la famiglia alla nascita del primo figlio, poiché prende coscienza di essere un pedofilo; la madre che passa la vita nel rimpianto di quel marito così “perbene”, costretta, secondo la sua visione distorta, a vivere accanto ad un figlio rifiutato ed odiato. Un odio così grande che nemmeno alla sua morte riesce a provare pietas ed empatia (ma il cui unico pensiero è cercare di provarci, o riprovarci, con il marito, tanto più che il figlio, causa della loro separazione e ostacolo al loro ricongiungimento, è ormai morto e quindi l’impedimento è stato rimosso). Poi c’è un altro padre che, invece di educare la figlia all’accettazione di sé ed alla legittimità della sua esistenza, non sa suggerirle altro antidoto alla ferocia del mondo (incarnata da due giovani balordi) che vivere nascosta ed indossare una maschera da unicorno quando esce. Poi c’è Ernesto, in conflitto con la propria sessualità, attratto dalle donne deformi, che lui ama solo, feticisticamente, per questo unico aspetto totalizzante e che viene ripudiato dalla madre.
Inizialmente, potrebbe sembrare che il regista si limiti ad esporre questi corpi, redigendo visivamente una sorta di catalogo degli orrori, che comprende freak e fenomeni da baraccone. Ma così non è. Ne denuncia, invece, da una parte il malessere, dall’altra la profonda umanità, che si contrappone alla ferocia ed alla disumanità del mondo che li attornia.
Su tutto dominano i colori rosa e lilla che, ben lungi da essere indicatori di un mondo fatato, diventano elementi di alienazione, nella loro sovrabbondanza, stucchevoli, fuori posto e disturbanti a disegnare i confini di un universo distopico, un non luogo da incubo, dove, nonostante tutto, l’amore e il desiderio di non essere più soli sanno affermare il loro diritto di cittadinanza.
C’è e ci può essere davvero un riscatto finale per tutti questi personaggi? Per coloro che sono vittima della ferocia insensata della società che li cannibalizza forse sì: così il giovane bello ma non amato, e che perciò non accetta parte di sé, ritenendola responsabile del rifiuto di cui è oggetto, si suicida e, passato in una nuova dimensione onirica, riesce ad ottenere la sua coda di sirena e con essa il tanto agognato amore del padre assente (non a caso la sirena rivela di essere il tatuaggio che il padre aveva su un braccio in una vecchia foto). La giovane priva di occhi a fronte di un gesto di estrema generosità trova l’amore in una donna fortemente obesa, ripudiata dal mondo per le sue fattezze, che è tornata sempre da lei, nel corso degli anni. Per lei, che non può fermarsi alle apparenze (e non vuole), questa, donna è bellissima grazie alla sua pelle morbida ed accogliente. La donna affetta da ipocondroplasia rivendicherà fino alla fine la sua legittima possibilità di scelta, portando a termine la sua gravidanza, grazie alla quale non sarà più sola, a dispetto dei rischi oggettivi e dell’avidità senza scrupoli del mondo che la circonda, basato, ingannevolmente, su una finta dolcezza da palcoscenico. I due partner sfigurati troveranno separatamente la propria strada: l’una, l’unica che forse abbia il coraggio di affermare di avere un’identità che va ben oltre la sua deformità, nella scelta di compiere il suo percorso da sola, senza nessun supporto: né quello della madre ormai morta (che non si comprende bene se l’abbia tiranneggiata o protetta sotto la sua ala rassicurante), né quello di un qualsivoglia partner. L’altro, facendo un’operazione di plastica facciale, che gli restituisce i tratti del viso, resa possibile grazie ad una valigia di soldi “sporchi” che, attraverso questa nuova destinazione d’uso, assumono un valore catartico. Anche Ernesto e Samantha vivranno il loro happy end: lei, non più sciatta, abbandonata la tuta informe ed i capelli legati a coda, che trasmettono un idea non solo di incuria ma anche di sporco, indosserà finalmente un abito femminile e lascerà i capelli, adesso curati, sciolti, ad incorniciarle il volto, pronta a ricevere il suo primo bacio che, anche se raccapricciante per lo spettatore, suggella non solo la possibilità di attrazione per questa insolita coppia, ma anche una sorta di riscatto sociale.