Di Tania Sabatino
Crip Camp: A Disability Revolution, cioè, da una parte, l’innesco di una rivoluzione e di un cambiamento possibili che passano dalle stesse persone con disabilità, una volta che esse abbiano preso coscienza di sé; dall’altra, l’analisi di come le disabilità possiedano intrinsecamente una miccia capace di cambiare l’ordine costituito, attraverso un elemento “perturbante” che non vuole più rimanere in silenzio.
Si tratta di un documentario girato da James LeBrecht e Nicole Newnham e prodotto dalla Higher Ground Productions.
A Camp Jened, realtà gestita da un gruppo hippy, i ragazzi con disabilità si sentono per la prima volta guardati e trattati come persone: il loro parere conta davvero, il loro punto di vista viene richiesto e valorizzato.
Si realizzano attività aggregative, cui tutti riescono a partecipare: lo spirito è quello di supportarsi a vicenda, mettendo a disposizione braccia, gambe, pensieri, sorrisi e risate schiette.
I ragazzi cominciano a sperimentare ed a sperimentarsi: si amoreggia sul fresco dei prati e all’ombra dei caseggiati, ci si dà appuntamento, si scopre il proprio e l’altrui corpo.
Mentre fuori bisogna chiedere il permesso di esistere, resistendo stoicamente ad una serie di piccoli e grandi abusi, a Camp Jened si è popolari. Non vi è distinzione tra ospiti e gestori e coloro che, tra gli aiutanti, sono giunti lì convinti di raggranellare qualcosa con un lavoretto estivo, a digiuno di esperienza, ma pronti a riempirsi di paure, vengono letteralmente spinti giù dal pulmino, proiettati in un nuovo modo di guardare la realtà e di relazionarsi, un atteggiamento che promuoverà una profonda trasformazione interna ed anche una loro continua messa in gioco.
Un’esperienza, per i ragazzi con disabilità, volta alla presa di consapevolezza dei propri desideri e del fatto che si possa avere una vita migliore cui aspirare, perché “Non puoi lottare per una vita ed un mondo migliore se non sai che possono esistere”.
Anche a Camp Jened scoppia la quarantena, legata alle piattole, che impone il distanziamento sociale forzato.
Due le opinioni: c’è chi sostiene che se non si hanno sintomi né su di sé, né espressi dal proprio compagno di stanza, il distanziamento sia essenzialmente una forma di disumanizzazione. E chi, invece, ritiene che abbia favorito un atteggiamento positivo e propositivo, il classico” di necessità virtù”, facendo ulteriormente emergere le potenzialità di ognuno ed incrementando il sostegno reciproco possibile, trasformando il tutto in una sorta di gioco.
A casa c’è un’implicita gerarchia delle disabilità: all’apice ci sono i poliomelitici, perché più simili ai normali, alla base di un’ipotetica piramide di posizionano le persone affette da paralisi cerebrale. Non a caso, quando due persone con paralisi cerebrale, Denise e Nei Jacobson, decideranno di sposarsi, la di lui madre dirà “Capisco che tu scelga una disabile, ma potevi preferire una poliomelitica”.
Proprio per questo Denise comprende che le fondamenta dell’ indipendenza di pensiero ed azione, che ella metterà in pratica, sono: studio, lavoro ed avere una relazione, seppur clandestina. Quando uno dei dottori scopre che in realtà un suo forte dolore addominale non è dovuto ad un’appendicite (asportata sana), bensì ad una malattia venerea , la gonorrea – nessuno aveva considerato questa ipotesi perché lei era considerata asessuata (“Chi scoperebbe una così?”) – lei si sente fiera di sé.
Crip Camp poi ripercorre tutta la lotta per l’affermazione dei diritti civili delle persone con disabilità e l’approvazione della sezione 504 del Rehabilitation Act che impone che chiunque sia beneficiario di fondi pubblici debba eliminare qualsivoglia forma di discriminazione (scuole, uffici, ospedali, mezzi pubblici).
Ma c’è ancora tanto da fare, perché “fin quando si è costretti a ringraziare per il semplice uso di bagni pubblici, come ci si può sentire uguali agli altri?”
Proteste vive e vivide, fatte di carne, sangue e sacrifici: commoventi le sequenze che documentano di persone, con gravi problemi di salute, che dormono a terra, in condizioni davvero precarie, nonostante la sofferenza e le evidenti difficoltà fisiche, perché credono profondamente nella possibilità di equità e riscatto sociali. O di coloro che con grande fatica trascinano i corpi per salire lunghe rampe di scale, poggiandosi sulle mani , bambini inclusi, o trascinando carrozzine e stampelle.
Il documentario offre anche la testimonianza di chi, improvvisamente, si è trovato sbalzato, a causa di un incidente, dall’altro lato della barricata, tra i problemi, gli ostacoli e gli orizzonti, troppo spesso angusti, che prima, in sordina, appartenevano solo alle “vite degli altri”.
Il documentario si chiude sul filo della memoria e con un pizzico di malinconia: persone che dai più erano considerati “scarti” malamente tollerati, considerati come destinati alla morte, hanno avuto modo di mettere a segno i loro obiettivi, di esprimere se stessi e sono diventati, tra le altre cose, vice direttori di banca, insegnanti, fonici teatrali, scrittori… Molti di loro hanno anche messo su famiglia ed i loro figli, vivendo a stretto contatto quotidiano con le difficoltà, le sembianze e gli insegnamenti di persone con disabilità, oggi non vedono la differenza: sono solo molto orgogliosi dei propri genitori.
Un documentario che affonda le radici nel passato, allungando lo sguardo sul presente (Camp Jened nacque nel 1951 e tentò vari esperimenti aggregativi, tutti all’insegna della più profonda umanità ed autenticità di sentire, per far vivere i giovani fuori da stereotipi, pregiudizi ed etichette), ma che mostra la vivacità avanguardistica di un esperimento hippy che tuttora sarebbe in grado di sovvertire i canoni, reso possibile grazie a persone che, ben lungi dall’essere solo fricchettone, figlie dei fiori, come spesso vengono ricordate e catalogate, diedero un importante contributo ed impulso alle battaglie per i diritti.
Parallelamente, mostra come alcuni problemi relativi al processo di inclusione siano ancora drammaticamente attuali: dagli stereotipi che frenano il contatto relazionale a quelli che abitano la sfera affettivo-sessuale, senza dimenticare un atteggiamento pietistico, figlio di una concezione biologista che ancora troppo spesso sembrerebbe farla da padrone. C’è un passaggio, tra gli altri, che si stampa nella memoria: quando i ragazzi cercano di andare in città a prendere un gelato, ma trovano non solo una barriera all’ingresso, ma un ostacolo ancora più insopportabile nelle menti e nei cuori dei presenti che commentano a mezza bocca, ma non abbastanza ad alta voce da essere certi che il tutto sia udibile: “Io quelli non ce li voglio qui. Con la loro presenza disturbano i clienti”. Non vi ricorda episodi davvero recenti tristemente raccontati dai giornali?