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La pelle che abito: una storia allucinata di dissociazione fisica ed emotiva

La pelle che abito

Di Tania Sabatino

Il film La pelle che abito di Pedro Almodovar (2011) ci porta nel tempo e nei luoghi dei paradossi e della ipotesi capaci di scuotere profondamente le coscienze, creando un senso claustrofobico di straniamento ed alienazione. Il sentirsi alieni ed estranei a sé stessi è sottolineato sin dal titolo della pellicola. Non la mia pelle, un aggettivazione in cui venga evidenziato il senso di appartenenza, bensì l’abitare in un corpo sostanzialmente imposto, trasformato, manipolato da altri, in maniera forzosa, per adeguarlo ai propri desideri. Un corpo in conflitto con la propria identità di genere, perché la profonda trasformazione che ha subito non è frutto di una propria scelta consapevole, compiuta per allineare la sfera emotiva e psicologica a quella biologica, bensì è avvenuta in senso contrario, per assecondare le istanze di vendetta ed onnipotenza di chi ha perso la ragione ed il senso del bene e del male. Un conflitto, una dissonanza profonda e dolorosa, che spacca letteralmente l’individuo.

La pelle che abitoTutti i personaggi, a ben vedere vivono scissi, da sé stessi e dall’ambiente circostante e, paradossalmente, proprio Vera, il cui stesso nome parrebbe essere una sorta di beffa, colei che dovrebbe rappresentare l’apoteosi di questo processo di disgregazione dell’identità, questo essere ormai ibrido, risulta, invece, essere il più coerente di tutti, come evidenzia Liuva Capezzani, psicologa, psicoterapeuta, esperta del metodo EMDR sui vissuti traumatici, catastrofi naturali, violenza e abusi sulle donne.

Robert è un medico. Il suo spingersi oltre, in nome delle sue ossessioni, violando i limiti ed i confini di etica e morale, è già ben noto nella comunità scientifica, in relazione ad alcuni accenni, a volte sussurrati, altre volte dichiarati a voce piena da alcuni interlocutori. La pellicola lascia in qualche modo intuire che Robert abbia già da prima un atteggiamento anormale, cioè fuori da ogni sistema di regole. Il tutto viene estremizzato quando perde prima la moglie e poi la figlia. Gal, sua moglie, infatti, fugge con quello che si rivelerà essere il di lui fratello, per poi rimanere coinvolta in un incidente che la carbonizza parzialmente, lasciandola viva per miracolo (o forse, nell’ottica del film, per una sorta di castigo), ma orrendamente sfigurata, una sorta di tizzone umano. Ciononostante, Robert se ne prende cura in maniera maniacale. Ed è qui che cominciano ad evidenziarsi i segni del suo squilibrio psichico. Perché, come racconta sua madre, Marilia, che è anche la governante di casa, lui è inebriato non solo dall’odore di carne bruciata ma anche dal completo controllo che ha sul corpo e sulla vita della moglie, costretta, “per il suo bene”, ad essere celata e completamente isolata dal mondo. Sia la madre sia la figlia, che nel tempo ha accumulato eventi traumatici e vissuti abbandonici, condivideranno il medesimo destino: usciranno bruscamente da questa vita, buttandosi giù da una finestra. Norma, nelle figure archetipiche proposte da Almodovar (c’è chi è nato per lottare, chi per alimentarsi attraverso le sue ossessioni, chi per subire ingiustizie, chi per soffrire, chi per sopravvivere, chi per cambiare il corso della scienza…) incarna colei che nasce sfortunata. Ad un certo punto, ella incontra Vicente, che scambia la sua innocenza, il suo essere parzialmente estranea e poco corazzata per vivere in un mondo superficiale e “feroce”, per disponibilità. Un travisamento, che forse, potrebbe essere legato non solo ad un’erronea interpretazione della situazione, ma anche al fatto che Vicente vive in qualche modo costantemente anestetizzato da droghe, scisso dalla realtà, estraneo a se stesso ed al suo sentire più autentico.

Durante una festa, dunque, si incontrano due persone (scisse), obnubilate: l’una è vittima di un vissuto traumatico, come ci spiega la psicologa, che la estranea dalla realtà e la fa reagire cercando di proteggersi in un mondo altro… Non a caso Norma racconta a Vicente che si ritrova poco in quell’universo di apparenze, fatto di scarpe con il tacco e di abiti che in qualche modo imprigionano il corpo: fosse per lei girerebbe sempre nuda. Lui diventerà il capro espiatorio di un evento traumatico e vivrà a sua volta esperienze traumatiche multiple, indotte da un mix letale di altrui sentimenti di onnipotenza e di vendetta.

La pelle che abito“Bisogna distinguere – spiega Capezzani – tra un evento traumatico e un vissuto traumatico. L’evento traumatico è quello che ha le caratteristiche e le potenzialità per poter evocare una risposta dello spettro traumatico, ma non sempre ad un evento traumatico segue un vissuto e una reazione traumatica. Molto dipende dallo stato psicofisico in cui ci si trova al momento dell’impatto con l’evento, ovvero dalle risorse psicofisiche di cui si dispone per gestirlo”.

Secondo quanto evidenzia Capezzani, molto dipende dalle storie di eventi traumatici pregressi che il soggetto ha accumulato nel corso della sua esistenza. Se una persona proviene da un periodo di stress precedente all’evento traumatico è possibile che abbia una risposta per esso meno adattativa, meno risorse psicobiologiche per regolare e modulare le reazioni disregolate.. Se alle spalle ha una storia di traumi cumulativi, abusi, negligenze, trascuratezze, lutti precoci, è possibile che la persona manchi non solo di risorse psicobiologiche ma anche di punti di riferimento relazionali per modulare quelle stesse risposte disregolate.

“In altri termini – ribadisce l’esperta di traumi ed abusi – non tutti quelli che si confrontano con un evento traumatico, imprevisto e inatteso, maturano una risposta traumatica e dissociativa. Può esserci per questi un momento di disorientamento che però dura finché dura l’esposizione all’evento. Quando perdura oltre è possibile sospettare un pregresso di altre esperienze traumatiche che all’ultima si slatentizzano”.

La pelle che abitoIl fatto stesso che Norma si opponga alla penetrazione, dopo che, in un primo momento, si è dimostrata partecipativa nei baci, vissuti quasi in maniera estatica, mentre viene in qualche modo cullata dai complimenti in parte stereotipati di Vicente, potrebbe indicare, secondo Capezzani, il ricordo improvviso di un abuso e di una violenza sessuale pregressa, che riemerge con forza dai meandri e dagli angoli ciechi della memoria, riportandola repentinamente in un limbo temporale sospeso tra passato e presente ed inducendola a gridare per il terrore che la invade.

Robert ed El Tigre, infine parrebbero rappresentare le due facce di una stessa medaglia, così come, pur senza saperlo, sono figli della stessa madre e della stessa radice. Però, se l’uno, violando il sistema di regole codificato e socialmente accettato, finisce in prigione e viene relegato ai margini, persino dalla sua stessa madre che ne teme i comportamenti sregolati; l’altro, come si evince dalla conferenza scientifica sul cervello che apre il film e dalla presentazione della pelle ultra-resistente Gal, in qualche modo è accettato ed integrato dalla società, che pure in vario modo lo teme per il suo camminare sull’orlo dell’immoralità e dell’illegalità. Anzi, lui è addirittura fiero della sua anti-etica, un sentimento che non gli consente di provare né sensi di colpa né rimorso, ma che anzi lo riempie di orgoglio, perché lui, nella sua percezione distorta, lavora per l’evoluzione dell’umanità.

“Si tratta – chiarisce Capezzani – di un’ideazione di grandezza che spesso ritroviamo specificamente nella fase maniacale dei disturbi bipolari o psicotici. Implica la convinzione di essere persone speciali, che fanno cose fuori dal comune, o la convinzione di avere un infallibile controllo sulla realtà, per cui si può fare a meno degli altri anche a costo di usare mezzi illeciti”.


Approfondimento

Leggi l’approfondimento di Liuva Capezzani e Tania Sabatino


Guarda il trailer

Trailer Italiano del film “La Pelle Che Abito” di Pedro Almodovar

Video tratto dal canale YouTube di UniversTrailers

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