La perdita dell’autonomia, della libertà fisica e dell’indipendenza decisionale: vivere alla mercé delle decisioni altrui
Di Liuva Capezzani* e Tania Sabatino
La pelle che abito (2011) è una pellicola di Pedro Almodovar, un regista visionario ma profondamente analitico nei suoi lavori, quasi un chirurgo che con il bisturi, che nel suo caso viene sostituito da immagini, ambientazioni e dialoghi, penetra e disseziona l’animo e la mente umani.
Durante e dopo la sua visione, questo film fa sorgere una serie di inquietanti e logoranti domande correlate. Ad alcune abbiamo provato a rispondere assieme alla dott.ssa Liuva Capezzani.
Tra i tanti temi affrontati abbiamo scelto di esaminare quelli relativi a come le esperienze traumatiche possano condurre o meno a stati dissociativi o comunque alla scissione della persona. L’importanza di provare per il proprio corpo un senso di appartenenza da nutrire attraverso il tempo. Può però accadere che si possa sostanzialmente sviluppare verso il proprio corpo, vissuto come una prigione di cui altri hanno le chiavi, un senso di totale estraneità, esperendolo come un peso, di cui disinteressarsi e di cui non prendersi cura, addirittura da violare e lasciar violare. Ciò potrebbe verificarsi allorquando il corpo sia continuamente manipolato, trasformato, indirizzato, vittima delle decisioni altrui, imposte nelle azioni, nelle intenzioni, persino nelle forme, per assecondarne i desideri o le paure, che in questo caso si muovono tra idee distorte di grandiosità, ossessioni e spirito di vendetta. Un altro elemento che parrebbe essere capace di disabilitare l’individuo e su cui soffermarsi è quello relativo al profondo sentimento di alienazione da sé che prorompe dall’isolamento fisico e sociale forzato, quando si sia costretti ad abitare non solo all’interno di un corpo che si avverte estraneo, e che restringe, limita, l’espressione del proprio modo di essere più pieno ed autentico; ma anche in uno spazio ristretto, angusto spazialmente, cognitivamente e emotivamente, perché i contatti umani di qualsiasi tipo sono vietati e preclusi.
Appare utile riflettere anche sulle modalità attraverso le quali si possa mantenere un senso del proprio sé integro, nonostante le vessazioni fisiche e psicologiche subite, trovando una via di fuga da quel corpo, attraverso la costruzione di un rifugio mentale posto in una dimensione altra e attraverso la creazione artistica.
Un corpo che quindi continua ad essere percepito come una sorta di bambola di stracci, vissuto, dunque, come fatto di poca cosa, qualcosa di negletto, di usurato, di recuperato altrove ed assemblato in malo modo, quasi alla rinfusa.
Sulla scia delle estremizzazioni proposte dal film, che esce decisamente fuori dai bordi e dalle righe narrative, rappresentative e interpretative, arriva, infine, una riflessione su come alcuni si sentano in diritto di poter decidere delle vite degli altri, fuori da ogni sistema di regole socialmente, moralmente ed eticamente riconosciuto.
Un forte trauma (morte violenta di uno o entrambi i genitori ecc.) può provocare una scissione identitaria ed anche una sorta di sradicamento/assenza rispetto alla vita presente?
Un evento traumatico può creare un alone di non concernenza in chi ne sia esposto, ovvero quella sensazione che non permette di riconoscere l’esperienza vissuta come una esperienza capitata proprio a se stessi: perché proprio a me? Il che vuol dire non aver potuto ancora normalizzare quell’evento come qualcosa che sta o sarebbe potuto stare nella propria quotidianità come in quella universale di chiunque altro.
Ciò implicherebbe un senso di disorientamento o disancoraggio dallo spazio e dal tempo a cui si appartiene. Non sempre però questo alone di non concernenza evoca una scissione identitaria che invece ha a che fare con una frammentazione interna o con una percezione non integrata di parti diverse di sé. Questa diversa condizione si verifica nelle condizioni di dissociazione strutturale più plausibilmente di fronte ad eventi traumatici cumulativi di abuso e trascuratezza, o dell’attaccamento, relazionali.
Va poi introdotta una distinzione tra un evento traumatico e un vissuto traumatico. L’evento traumatico è quello che ha le caratteristiche e le potenzialità per poter evocare una risposta dello spettro traumatico, ma non sempre ad un evento traumatico segue un vissuto e una reazione traumatica. Molto dipende dallo stato psicofisico in cui ci trova al momento dell’impatto con l’evento, ovvero dalle risorse psicofisiche di cui si dispone e molto dipende dalle storie di eventi traumatici cumulativi pregressi che spesso attengono alle storie disfunzionali delle relazioni di attaccamento. Se una persona proviene da un periodo di stress pregresso all’evento traumatico è possibile che abbia una risposta per esso meno adattativa, da stress traumatico che può protrarsi oltre l’esposizione all’evento stesso. Se alle spalle ha una storia di traumi cumulativi, abusi, negligenze, trascuratezze, lutti precoci, è possibile che la persona manchi non solo di risorse fisiche ma anche di punti di riferimento relazioni che possano modulare la risposta traumatica. Potenzialmente traumatico è quell’evento che attenta, in modo diretto su chi lo subisce, e indiretto, cioè vicario, su chi ne è testimone, alla propria sicurezza, sopravvivenza ed integrità in modo inaspettato ed imprevisto. Invece la risposta traumatica è quella che osserviamo in chi a fronte dell’imprevedibilità e comparsa improvvisa dell’evento non abbia una reale disponibilità di risorse cognitive, somatiche, emotive, relazionali tali per emettere azioni resilienti, regolatorie, della risposta fisica, organizzate nei riguardi del contesto socio-ambientale e contenitive rispetto alla frammentazione delle rappresentazioni del sé.
In altri termini non tutti quelli che si confrontano con un evento traumatico, imprevisto e inatteso, maturano una risposta traumatica e dissociativa. Può esserci per qualcuno un momento di disorientamento che però dura finché dura l’esposizione all’evento. Quando perdura oltre, è possibile sospettare un pregresso di altre esperienze traumatiche che all’ultima si slatentizzano.
I soggetti più a rischio di dissociazione identitaria, o che possono rivelare con maggiore riverbero una pregressa dissociazione identitaria, sono quelli che da bambini hanno avuto figure di riferimento disorganizzanti. Sono figure, genitori, insegnanti.., che da una parte hanno assolto alla funzione accudente di protezione o promozione dell’esperienza del mondo e dall’altra però hanno anche minacciato la vita, la dignità e l’integrità del bambino, con abusi, trascuratezze, punizioni per essersi allontanati, per aver deluso, Condotte di questo tipo ridurranno non solo la fiducia nel futuro ma anche la possibilità di potersi fidare delle proprie risorse per fare previsioni sul mondo. La risposta può essere la fuga da se stessi, l’anestesia di sé.
Se sentiamo il corpo (il film si chiama non la mia pelle bensì la pelle che abito) come un estraneo possiamo sviluppare un sostanziale disinteresse verso le vicende che gli accadono?
Se, per una qualsiasi ragione, sentiamo il corpo come un estraneo, potremmo agire in diversi modi. Oggettificarlo, ridurlo ad un mero oggetto da usare per uno scambio, punirlo con atti autolesionistici se lo si sente ingombrante, disinteressarsene, fare finta che non me ne debba occupare anche se mi riveste, anestetizzarlo nelle percezioni… In questi casi si può incorrere anche in trasfigurazioni del proprio corpo, penso ai travestiti e ai transgender. Nel film il giovane protagonista si trova un corpo forzosamente cambiato di sesso, da cui inizialmente si dissocia, tagliando gli abiti che quel nuovo corpo avrebbe dovuto indossare e che a lui non erano mai appartenuti. Rincara la dose, tagliandosi la gola, per ostilità e combattimento contro il suo rapitore, come se di quel corpo, che è costretto ad abitare, non gli importasse nulla, e infine simula di essere diventata tutt’uno con quel corpo, innamorandosi apparentemente del suo rapitore come se davvero, anche interiormente, emotivamente e psicologicamente, si fosse trasformata in una donna, quella che era fisicamente diventata. Ma la sua sessualità rimane rigida, dolorosa, impenetrabile, una sorta di Sindrome di Stoccolma non pienamente compiuta. Il protagonista mantiene la sua identità di genere a fronte di un corpo dal sesso opposto, una sorta di dissociazione mente-corpo.
Spesso si parla di delirio di onnipotenza che fa sentire al di sopra ed al di fuori delle regole e potenzialmente libero di violarle impunemente. Ci descrivi di cosa si tratta?
Si tratta di un’ideazione di grandezza che spesso ritroviamo specificamente nella fase maniacale dei disturbi bipolari o psicotici. Implica la convinzione di essere persone speciali, che fanno cose fuori dal comune, o la convinzione di avere un infallibile controllo sulla realtà, per cui si può fare a meno degli altri anche a costo di usare mezzi illeciti.
In realtà questo di poter fare a meno di tutti più che l’esito del delirio di onnipotenza ne è la causa in termini di bisogno. Il bisogno di dimostrarsi autosufficienti e superiori a fronte di delusioni precoci da parte degli altri che hanno indotto al ritiro dal mondo autoreferenziale e rabbioso.
Da non confondere questo delirio di onnipotenza con il senso di grandiosità dei soggetti con tratti narcisistici che invece hanno bisogno di circondarsi di persone che valorizzino parti di sé già umiliate, che diano costanza di attaccamento a fronte di ferite narcisistiche da separazione e abbandono e che quindi colmino il tratto prevalente di senso di vuoto.
Il soggetto con delirio di onnipotenza si aliena dalla realtà, il narcisista, quello overt almeno, si immerge nella realtà per esserne rispecchiato, per cui il primo rischia di essere cinico e meno empatico, il secondo più empatico.
* Psicologa, psicoterapeuta, psico-oncologa esperta practitioner del metodo EMDR sui vissuti traumatici, catastrofi naturali, violenza e abusi sulle donne.